Incontriamoci nel deserto

dicembre 22, 2016



C’è voluto un po’ prima che iniziassi a scrivere. Incominciavo, poi cancellavo le parole, cancellavo intere frasi, cancellavo anche i miei pensieri. Il foglio bianco è il mio deserto, un’interminabile traversata nell’assenza di inchiostro alla ricerca della frase perfetta, di quell’emozione in grado di spazzare via la duna di polvere da un cuore chiuso alla vita. Così ho aspettato prima di iniziare a scrivere, “mi prendo del tempo” mi sono detta, ancora tempo, “vado a Milano, scriverò mentre starò lì”. Ed eccomi come sempre incastrata nel tempo, nell’assenza di tempo, come quella che si percepisce nel deserto o mentre si vola in aereo fra le nuvole. Davanti agli occhi un infinito blu, macchiato da qualche nuvola. Il mio deserto non ha il colore giallo ocra della sabbia ma è un suono: il ticchettio di due lancette e l’embrione di un’azione da compiere che irrimediabilmente finisco per abortire. Senza rendermene conto ho in mano il mio blocco appunti e la penna, abbasso il tavolino reclinabile del sedile di fronte e inizio a scrivere.”Che vada al diavolo il tempo, che vada al diavolo l’attesa per arrivare alla perfezione”,  al deserto non importa la perfezione o la frase giusta, non importa quanti anni hai, qual è la tua storia; nel deserto se ti fermi il tempo non esiste, non hai appuntamenti, non hai scadenze, muovi le lancette quando vuoi tu. Il tempo è forse uno dei deserti più vasto al mondo. Sorrido e penso che in quell’aereo per circa un’ora e mezza non posso essere rintracciata, volo in aria dove le distanze terrene si accorciano e il tempo ti avanza, è il non luogo ideale per parlare della conferenza TedxBari dal titolo Deserto. In questi giorni la mia mente è stata un turbinio di messaggi appresi alla conferenza e saldati nel cuore, un tremendo peso sul come cercare di trasmettere a chi legge la stessa forza, lo stesso coraggio; allora ho pensato “perché non fare un gioco?”. Togliamoci l’orologio dal polso, spegniamo il cellulare e camminiamo nel deserto insieme. Non è vero che non avete 10 minuti per leggere, ne abbiamo infiniti e si ripetono sempre, e molto spesso senza accorgercene ci scivolano via in futilità.


Sabbia, caldo, siccità, oasi. Queste, molto spesso, sono le parole che si associano al deserto contornate da colori caldi come il rosso e l’oro, e sormontati dal blu dell’immenso cielo.
Questa è una delle tante visioni che abbiamo del deserto, ma può un entità così vasta essere racchiusa da una parola? Certo che no, e gli organizzatori del TedxBari avranno avuto la stessa intuizione quando si sono messi al tavolo per scegliere il tema di quest’anno. Dodici speakers per offrirci 12 prospettive diverse sul deserto. Ed ecco che sabato 26 novembre si spengono le luce nel teatro Petruzzelli e si accendono quelle delle idee del Ted. Il direttore artistico ci lascia sbirciare la sua emozione nel presentare la serata. È sempre bello vedere chi sul palco non crea un abisso apatico con il pubblico sigillando le emozioni dietro una scaletta, è bello vedere che il Ted lo formano organizzatori e pubblico e che le emozioni molto spesso vengono scambiate reciprocamente, e allora diventa tutto un enorme palco. Cosa rappresenta il deserto per noi? Può rappresentare tutto: un non luogo abitato da paure, miraggi, desideri dove l’ego può librarsi e rinascere in una forma meno distruttiva; un luogo di ricerca, di prova, per misurare il proprio coraggio e oltrepassare i propri limiti. Un'ocra maculato da oasi che prendono le forme di brevi tappe dove sostare, recuperare le forze e proseguire ancora seguendo il movimento delle dune, di quelle dune scolpite dal vento che non sembreranno mai le stesse. Ogni cosa è soggetto a cambiamento, anche la vastità del deserto cambia forma. Nel deserto c’è sempre un nuovo inizio e lo sa bene Martina Caironi che del suo incidente ne ha fatto la partenza per una nuova vita. Il suo deserto è la sfida di atleta paraolimpica, l’invisibilità della sua gamba che ancora fa male e che la costringe a ripartire ogni volta, ma lei è una tuareg e il deserto del dolore non la spaventa. Attraversa quella vastità del suo spirito con la certezza che le lacrime versate faranno crescere qualcosa anche lì nell’immenso arido. Il pensiero scalpitante che urla “TU la puoi superare”, alla fine c’è sempre una ricompensa. Immediatamente veniamo travolti dalla sua energia da quelle parole che dicono “se si vuole raggiungere un sogno non basta crederci bisogna crederci fino in fondo.”  Anche per un granello di felicità vale la pena tentare, provare, impegnarsi. Ogni oasi incontrata sul suo cammino rappresentava una prima tappa di felicità, ma da questa felicità non si è mai lasciata sviare e riprendeva il suo percorso fino ad arrivare in fondo. Sulla sabbia lascia per noi delle orme da seguire.


E allora le seguo quelle orme di coraggio e il cammino mi porta fino in Giordania. A guidarci è Leigh-Ann Bedal. Coraggio, resilienza: ma si può vivere nel deserto? Scopro Petra con le sue sculture, con la pietra dura resa gentile dal genio degli uomini. Si può vivere… ovunque. Sistemi di irrigazione, vegetazione. Un deserto rosso, ma non aspro, le tracce degli uomini sulle pietra. Ma quando la pietra diventa maceria, polvere, frastuono e dolore, allora che tipo di deserto è?


Scorgo una ragazza con un foglio in mano, la testa china su quel foglio, parla, racconta il dolore: Francesca Borri. I suoi occhi persi sul quel foglio mentre racconta di uno scenario fatto di polveri sospese, macerie, grigio, il sole che quasi non si vede, e rosso… rosso sangue, macchie, pozze… corpi, o meglio quello che ne rimane. È il deserto della guerra quello che racconta Francesca. Le parole fitte e piene di rabbia, si perde in esse…ricorda, lo sguardo si staccava di rado da quel foglio ma quando lo faceva ci scrutava, incrociava i nostri sguardi per assicurarsi che quelle parole ci scivolassero dentro. Sono arrivate, Francesca, tutte. La densa descrizione delle macerie, di corpi… un braccio…una mano… questa è la guerra. “Non avete visto niente della guerra ecco perché pensate che sia giusta!”. “I morti sono quelli che ti spolveri di dosso la sera… Non entrano in una foto…” . Perché non entrano in una foto? Perché sono a pezzi, in parte sono polvere e in parte le macerie sono formate dai loro arti. Ed ecco un’esplosione! L’ennesima. Il pensiero che corre a trovare un rifugio, ma quale? Puoi salvare il corpo, forse, ma la mente in quel caos riesci a salvarla? “Non c’è logica o salvezza”…”In guerra muori e basta, e muori anche male”. Chi è rimasto? Chi si è salvato? Dove sono i cittadini? La forza dei ragazzi è ancora viva, la loro rabbia è pura, non si prestano a questo gioco stupido della guerra. Vogliono di più. Si raccontano e raccontano la disuguaglianza dei meriti, si sentono dimenticati. Laureati e con master e poi ridotti a fare i camerieri o i tassisti, per certi versi ricorda l’Italia. Ed eccoci a fare un confronto con il deserto italiano della precarietà, ma noi quale scusa abbiamo? In Italia nessuno dice “io non ci sto”, i ragazzi si incamminano verso il destino dell’insoddisfazione. Perché noi italiani non crediamo più ai sogni? Abbiamo trasformato la nostra terra in deserto e adesso non cresce più nulla, neanche il più semplice desiderio. La testa di Francesca è sempre più china su quel foglio. Sembra quasi che sia ritornata in quel mondo grigio, inquinato dal tanfo acre della morte. Le sue parole escono in fretta e sono come aghi che si infilano sotto le unghie: “in cambio della ricchezza abbiamo creato povertà e guerra”. Rimango impietrita, le sue parole distruggono la quarta parete del suo monologo e arrivano intere nel profondo del pubblico. Francesca è amareggiata dall’indifferenza dell’essere umano. Ma che fa conta i morti? Sì, conta i morti; conta quanti bombardamenti ci sono stati in 18 minuti, quante vite spezzate. Il tono della sua voce cala, è il peso di quei morti che la schiaccia, che fa pressione nella sua coscienza.  “Ogni volta che non fai niente, perché pensi che non serva a niente, stai contribuendo al problema”.  Ora racconta di un uomo, non capisco se è un soldato o un civile qualunque, ma ha un fucile in mano e spara un colpo uccidendo un altro uomo. Lui dice: “Io sono contro la violenza, ma non vedo soluzioni. Tu ne vedi?” e Francesca:” Certo, sei TU!”.


Lasciamo Francesca e ci spostiamo in Africa accompagnati da Jaha Dukureh che ci racconta un deserto diverso, quello nato dall’assenza di parole: il deserto del silenzio. Lei è bellissima, come solo una donna con uno spirito forte e una missione da compiere è in grado di essere. Jaha si batte contro l’insana pratica della mutilazione genitale femminile che macchia non solo l’Africa ma anche altre zone del mondo. La rabbia che prova e la sofferenza che ha vissuto in prima persona e visto, non hanno scalfito il suo volto, ma anzi brilla di luce propria; dedicare la propria esistenza a migliorare la vita di chi soffre è sicuramente la migliore cura estetica. Ci racconta di una vera e proprio cultura del silenzio che uccide la dignità delle donne. La mutilazione genitale femminile, contrariamente da quello che si è portati banalmente a pensare, non ha a che fare con la religione o con tradizioni di qualche tribù o civiltà… è pura pazzia contornata da stupidità.  Le donne vengono "chiuse", sigillate sia nel corpo che nell’anima. Non possono avere rapporti sessuali, la mutilazione genitale è una pratica brutale che vieta alla donna di essere una vera donna, di vivere il proprio corpo. Le mutilazioni vengono eseguite con lame di fortuna non sterilizzate, con pezzi di vetro, il tutto senza anestesia, se sei fortunata al primo taglio svieni e non senti più nulla, altrimenti sei costretta a vivere tutto quel dolore da cosciente. Ad infliggere un dolore inutile sono le stesse donne, magari nonne che eseguono “la pratica” sulle nipoti. Tra sangue e urla le piccole labbra, parte delle grandi e molto spesso la clitoride vengono tagliate via, gettati come si buttano gli scarti della carne del macellaio. Lembo a lembo, quello che rimane, viene cucito lasciando solo due piccolissimi fori: uno per l’urina e uno per le mestruazioni. Più i fori sono piccoli e più la donna viene considerata “pura”. La vulva innaturalmente liscia, senza la consueta anatomia che consente di vivere normalmente. Le infezioni sono assicurate per tutta la vita, essendo una pratica che va contro la propria natura il corpo non guarisce mai completamente e si è costrette a convivere con dolori lancinanti per sempre. Nessuno parla, nessuno esce dalla bolla di silenzio. Le bambine non possono sottrarsi a questa tortura se sono le madri a condurle per mano. Bisogna rompere il silenzio, parlare, seminare un nuovo pensiero, una nuova coscienza. Così forte  e sicura Jaha, ferma nell’idea che le cose cambieranno, possono cambiare. “Questa è la mia vita e DEVO cambiarla… Nulla è impossibile!”.


In questo cammino che parla e lascia un segno, nuove idee, pensieri che germoglieranno, incontriamo le visioni dei ragazzi di Cinéma du Désert. Davide e Francesca: due ragazzi che amano sognare e portano i loro sogni nomadi nel deserto. Percorrono i loro kilometri su un camion autocostruito, ecologico che crea il minimo impatto ambientale, e con questo mezzo portano la settima arte in giro per i popoli del deserto come ringraziamento della loro ospitalità. Immagini, film, cultura per chi non ha questo privilegio. “È bello stupire, ed è bello emozionarsi insieme”: vivono per regalare sorrisi, con loro il deserto si trasforma in un luogo dove non esiste la diversità, dove si rispolvera il valore del convivio, dove tutti hanno solo voglia di essere felici… insieme! Si abbattono le distanze, si abbattono i confini, ci si mette nei panni degli altri per sentirsi un tutt’uno: noi e la Terra. “We are nature”.  In loro non c’è solo l’amore per il cinema ma anche quello per il mondo intero, attenti alle condizioni climatiche del pianeta, portano avanti quella che loro chiamano “educazione climatica”. Il deserto permette loro di poter osservare come realmente il clima si evolve con pericolosa rapidità.  Francesca e Davide hanno a cuore il nostro pianeta, dopotutto come potrebbe essere il contrario, la Terra è la nostra prima casa! Credono nell’educazione culturale come pilastro dell’umanità e ci ripetono che per salvare noi stessi dobbiamo per primo salvare la natura. Insieme al loro camion portano con sé il vento del cambiamento, che anche se si cambia la vita di una singola persona in meglio ne è valsa la pena. Vediamo il camion allontanarsi fra polvere e pellicole di film e una voce inizia a parlare...


“Possiamo avvertire il deserto anche in una stanza piena di persone… a volte i deserti sono invisibili”, a pronunciare queste parole è un uomo in tuta blu: l’astronauta Luca Parmitani. Lui ci trascina giù… nei deserti interiori, che non sono solo quelli della nostra anima, ma anche quelli custoditi nelle viscere di una montagna. Luoghi immensi senza luce, senza rumori. “Proviamo a spegnere la luce” … il buio che c’è sotto una montagna è diverso, è totale, non ha le sfumature della notte, lì ti puoi sentire realmente solo. In quell’assenza di luce, però, qualcosa c’è, degli organismi che riescono a sopravvivere. Allora eccola la domanda che fluttua nei pensieri di tutta l’umanità: “quindi su Marte potrebbe esserci vita?”. Sentiamo una spinta verso l’alto e… arriviamo nel deserto assoluto: lo spazio. Vuoto. Silenzio. Le albe non sono lente come sulla Terra ma in pochi minuti si assiste a parte del globo illuminato. Colori e assenza di buio. Mentre noi cerchiamo di contare le stelle e capire se realmente sono fatti della stessa sostanza dei sogni, Luca lascia la parola a Rosalba Bonaccorsi che continua a condurci tra i misteri di Marte.


Ci addentriamo ancora sulla possibilità che su Marte un giorno potremmo trovare una forma di vita. Non nella forma dell’immaginario cinematografico ma molto più piccoli, microrganismi talmente piccoli da poter vivere in un granello di sale. E su Marte del sale è stato trovato… quindi… potrebbe… Con questi pensieri i piedi toccano terra, la nostra Terra.


Smettiamo di parlare ed iniziamo a giocare con Matt Nava, ideatore del videogioco Journey. Giocare nel deserto con omini che somigliano a volte a tuareg altre volte a samurai futuristici. La morbidezza e leggerezza della sabbia in un mondo virtuale. Matt riceve decine di email di ringraziamento dai ragazzi che nel suo videogioco hanno trovato una via di uscita dalla solitudine sociale che molto spesso incombe quando si combatte contro una malattia, come una ragazzina di 15 anni che lo ringrazia dicendogli che il suo gioco è stata una terapia nel periodo in cui il padre era malato di cancro.


Deserto digitalizzato, deserto informatico. Siamo ancora nel mondo virtuale con Guido Segni che mira a riprodurre l’intero deserto del Sahara sulla piattaforma di Tumblr. Questo progetto “folle”, a suo dire, è stato iniziato da due anni e si concluderà fra 50 anni. Un progetto che è certo che fallirà e infatti il titolo prende il nome di “A quiet desert failure”. È un’ impresa che fa riflettere sul tema del fallimento, considerandolo il fine ultimo della performance artistica. Tutto è soggetto a cambiamento, perfino il deserto, quindi fra 50 anni esisterà ancora Google Maps? Esisterà il suo algoritmo? Un lavoro di pazienza, si aspetta che il deserto alla fine arrivi fino a noi: “abbiate pazienza, non abbiate fretta perché il deserto sta arrivando”.


L’arte ci accompagna ancora nel nostro ultimo kilometro di percorso, incontriamo Andreco: ingegnere ambientale che è riuscito a conciliare la sua dote artistica con la scienza, portando avanti un ricerca artistica e ambientale. Dona arte nei villaggi del deserto, e negli spazi urbani dimenticati. Combatte la desertificazione urbana con arte pubblica che hanno come tema principale il cambiamento climatico. “La mia volontà di lavorare a progetti di arte pubblica sui cambiamenti climatici nasce dal senso di responsabilità verso il pianeta e le generazioni future”.


Il viaggio finisce qui, tra idee ed emozioni, arricchiti dalle mille sfumature che un deserto può possedere. Ritorniamo alle nostre dimensioni. Subito nel cuore si accende il ricordo della nostra piccola grande Bari, di quel teatro che il 26 novembre era pieno di persone con gli occhi lucidi e che a fine conferenza venivano accompagnati dalle note della chitarra di Riccardo Onori. Una musica dal sentore desertico, nata dalla collaborazione e influenza di quello che lui stesso ha definito "il chitarrista senza tempo": un chitarrista tuareg del Mali. Ci ha raccontato di lui come un musicista che portava il tempo in una maniera strana, diversa dalla sua, che faceva fatica a stargli dietro e per questo si sentiva in imbarazzo: "Alla prima pausa ho cercato di entrare maggiormente in confidenza, gli ho chiesto anche quanti anni avesse e mi ha risposto 'Non lo so'. Mi ha letteralmente sconvolto. Mi sono chiesto cosa sarebbe la mia vita se non sapessi la mia età, se non sapessi cioè quando è iniziata se ne perdessi il tempo. Siamo abituati a scandire tutto con la data di nascita, abbiamo tutte queste scadenze che ci segnalano ogni volta qualcosa. Lui suonava libero perché non aveva il punto di partenza". E allora anche noi abbiamo cercato di dimenticare il tempo mentre suonava e la musica di Riccardo ci ha accompagnati fino a quando una sorpresa non ci è apparsa davanti ai nostri occhi: Vinicio Capossela. Con la voce di Vinicio i cuori si riscaldavano e ci sentivamo tutti legati come se non esistessero confini, proprio come nella vastità di un deserto dove finalmente gli uomini si incontrano senza giudizio, con sorrisi e curiosità, avendo nel cuore la certezza che la diversità culturale è la più grande e inestimabile ricchezza.

... Nel teatro le luci si accendono e le persone rientrano nelle loro vite...

Il mio aereo atterra e la magnifica vastità del mondo viene spezzata da palazzi, porte, chiusure, controlli, occhi bassi, fretta, orologi...sospiro..."dopotutto il deserto non è poi così male!".



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